venerdì 29 giugno 2012

Paolo Borsellino vive


«Dove cercare oggi i santi?». Sotto questo titolo a grandi caratteri, nel novembre dell’anno scorso, “Vita del popolo”, settimanale della Diocesi di Treviso, pubblicava in prima pagina una frase pronunciata alcuni giorni prima da Giovanni Paolo II: «Alla fine del ventesimo secolo la Chiesa iscrive nel suo martirologio tutti coloro che in questo secolo critico e davanti alle crudeltà (...) hanno reso testimonianza della fede, della speranza e dell’amore in modo eroico». Accanto alla citazione c’era una foto di Paolo Borsellino: con il volto sorridente discuteva con Giovanni Falcone.
E’ così che ricordo Paolo. Così l’avevo conosciuto quando era venuto in Veneto e in Friuli per partecipare ad alcuni incontri sulla mafia: rilassato, sereno, scherzoso, sempre pronto alla battuta spiritosa e all’ironia tipica dei siciliani “doc” che riescono persino a ridere dei mali della loro terra per non drammatizzare. 


Per questo mi tornò in mente la convinzione espressa da Sant’Agostino che feci scrivere nel “papier souvenir” dei miei genitori: «Coloro che piangiamo non sono assenti, ma soltanto invisibili: i loro occhi, raggianti di gloria, sono fissi nei nostri pieni di lacrime». Perché? «Mentre per i pagani il “dies natalis”, la memoria, non è il giorno del decesso, considerato nefasto - spiegava nell’articolo don Dionisio Rossi, direttore del periodico - per i cristiani è proprio il giorno della morte a essere il vero ”dies natalis”». E, in tal senso, ricordava le parole di Sant’Ignazio d’Antiochia nella lettera ai Romani: «Ecco, è vicino il momento in cui io sarò partorito! Abbiate compassione di me, fratelli! Non impedite che io nasca alla vita!».
UN SOGNO - Nei giorni successivi alla vicenda di Via D’Amelio ero stato preso dallo sconforto. Che senso ha promuovere qui al Nord, ormai da dieci anni, iniziative di approfondimento culturale e di sensibilizzazione civica sulla dimensione nazionale del fenomeno mafioso - continuavo a chiedermi - se poi laggiù, nel più profondo Sud, le migliori “punte avanzate” del fronte della lotta alla “piovra” finiscono in questo modo? Una notte, però, sognai Paolo. «Cosa dobbiamo fare ora?» gli chiesi con la voce che
tradiva il pessimismo del momento. «Che domanda!» rispose subito lui. «Dobbiamo continuare a combattere! Non vedi? Io me ne sto fottendo che mi abbiano fatto fuori!». Mi svegliai contento e andai a comprare i giornali per seguire gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage. Ebbene, proprio quella mattina, “l’Osservatore Romano” pubblicava un’intervista a Manfredi, il figlio di Paolo: «Mio padre - aveva detto parlando anche a nome delle sorelle Lucia e Fiammetta - è caduto per i valori in cui credeva fermamente e che ci ha trasmesso. Se sei coerente con la tua fede la morte per gli ideali che professi non può essere che un ritorno alla vita». Nella copertina di un settimanale c’era invece un pensierino tratto da “Cose di Cosa Nostra” di Giovanni Falcone, altro “seminatore di valori”: «Gli uomini cambiano, le idee restano. Restano te loro tensioni morali e continueranno camminare sulle gambe di altri uomini».
SOLO EROI? - Borsellino e Falcone: semplici eroi dei nostri giorni? «E non si potrebbero considerare “santi” - scriveva don Dionisio su “Vita del Popolo” - anche credenti che, oggi nel tempo della vita, offrono ad altri credenti esempi luminosi di fede, di dedizione, di impegno d’amore?». Ed ancora: «Se è vero che tutti in Cristo sono “fratelli” come tutti muoiono in Adamo, allora ogni morte è legata a quella di Cristo e, quando questa morte è sotto il segno dell’amore è morte santa, sia che avvenga per curare i lebbrosi o nel consumarsi a favore degli handicappati, oppure nel lottare per la giustizia o nell’essere trucidati nella lotta al crimine, alla corruzione, alla mafia».
Che fare allora davanti allo squallore di quanti, dopo un episodio raccapricciante, cominciano a tergiversare sui loro doveri civici facendo discorsi basati sull’«ormai non c’è più niente da fare?» Gli agnostici e i rassegnati vanno invitati a meditare su quella “cultura dell’ottimismo” di Paolo che emerge dai suoi appunti ripresa e sviluppata nell’intervista a Zavoli per il suo “Viaggio nel Sud”: «A Palermo i ragazzi di oggi sono perfettamente coscienti del gravissimo problema col quale conviviamo. E questa è la ragione per la quale, allorché mi si domanda qual’è il mio atteggiamento, se cioè ci sono motivi di speranza nei confronti del futuro, io mi dichiaro sempre ottimista. E mi dichiaro ottimista nonostante gli esiti giudiziari, tutto sommato non soddisfacenti del grosso lavoro che si è fatto. E mi dichiaro ottimista anche se so che oggi la mafia è estremamente potente, perché sono convinto che uno dei maggiori punti di forza dell’organizzazione mafiosa è il consenso. E’ il consenso che circonda queste organizzazioni che le contraddistingue da qualsiasi altra organizzazione criminale. Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due-tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare questa società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. E questo ma fa essere ottimista».
OTTIMISMO - Il suo ottimismo era basato anche sul fatto che a Palermo, «dall’inizio degli anni Ottanta era cominciata a crescere una notevole rinascita della coscienza civile». Una volta, invece, le cose non stavano così. «Quando avevo quindici-sedici anni - spiegava Paolo - io vivevo nell’assoluta indifferenza del fenomeno mafioso, che allora era grave quanto oggi. Addirittura mi capitava di pensare a questa curiosa nebulosa della mafia, di cui si parlava o non si parlava, comunque non se ne parlava nelle dichiarazioni degli uomini politici, come qualcosa che contraddistinguesse noi palermitani o siciliani in genere, quasi in modo positivo, rispetto al resto dell’Italia».
Quando e perché la “svolta”? «Palermo - diceva spesso Paolo - non mi piaceva. Per questo imparai ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare». Un testamento spirituale che non può non essere raccolto da tutti, con riferimento non soltanto a Palermo, alla Sicilia e al Meridione, ma anche -  considerato il dilagare del malcostume e della cultura mafiosa diffusi ormai dappertutto -  all’intero Paese.

                                                                                            Enzo Guidotto
(inviato da Enzo Guidotto, tratto da: "OPINIONI" Rivista diretta da Giuseppe Livatino - Canicattì, ottobre 1993)